dal 1953 la voce di San Gaspare nel mondo
D’amore, di morte e di libertà

Di Federico Maria Rossi
Nelle Appendici del Signore degli Anelli, dopo la fine del romanzo, Tolkien ha inserito lo struggente epilogo della storia di Arwen e Aragorn. Lei, nelle cui vene scorre sangue elfico e sangue umano, può scegliere se seguire il fato degli elfi, immortali, ma destinati a lasciare la Terra di Mezzo, o quello degli uomini, a cui Ilùvatar, Creatore del mondo, ha dato in dono la morte. Per amore, Arwen sceglie il destino degli uomini. Nell’universo di Tolkien, la morte (naturale) è un dono del Creatore agli Uomini – ed è un «dono di libertà»: «Uno di questi doni di libertà consiste in ciò, che i figli degli Uomini rimangono solo per breve tempo nel mondo vivente, e a esso non sono legati» (Silmarillion, 35). Inizialmente è vissuto come un dono «strano», ma non particolarmente difficile da accettare: «Morte è il loro destino, il dono di Ilùvatar, che, col passare del Tempo, persino le Potenze invidieranno» (Silm., 36). Ma l’invidia di Melkor, il Nemico, lo tinge di apprensione e paura: «Ma Melkor lo ha aduggiato della propria ombra e mischiato con la tenebra, e dal bene ha estratto male, e paura dalla speranza» (Silm., 36). Perché, però, le Potenze, e con loro gli Elfi, dovrebbero invidiare questo «dono», che essi non capiscono e che gli Uomini hanno la tentazione di rifiutare? Perché questa morte del corpo, questo destino finale che nemmeno i Valar conoscono, è un’apertura al trascendente, è una via d’accesso al Creatore, è una strada sicura per ritornare a Casa. Gli Elfi, infatti, sono «le più leggiadre di tutte le creature terrene [e hanno] la maggior felicità di questo mondo. […] Essi rimangono [nel mondo] sino alla fine dei giorni, e il loro amore per la Terra e per il mondo tutto è tanto più unico e profondo, e con il trascorrere degli anni sempre più intriso di malinconia» (Silm., 34). Essi incarnano l’arte, l’estetica e amano la bellezza in tutte le sue forme: la creano con l’opera delle proprie mani, la proteggono e la curano quando la incontrano nel Creato. Eppure si accorgono che il Tempo è più grande del loro potere e che nulla è destinato a durare; soffrono nel vedere la bellezza, da loro curata e amata, passare e sfiorire, mentre in loro la vecchiaia non ha effetto. Essi sono legati alla Terra – ma la Terra passa, mentre in loro crescono struggimento e malinconia. Essi sono legati alla Terra – e non hanno altro orizzonte in cui sperare. Quando creò gli Uomini, invece, Ilùvatar «volle che i [loro] cuori indagassero di là dal mondo, e in questo mai trovassero pace; ma che avessero la facoltà di plasmare la propria vita» (Silm., 35). Gli Uomini sono liberi, non sono legati a questo mondo: hanno una destinazione che non si trova né nella Contea, né nei verdi campi di Rohan. Il cuore dell’uomo non abita questi prati, queste rocce, queste onde – o meglio, vi abita da pellegrino: «I figli degli Uomini muoiono per davvero e abbandonano il mondo; per cui son detti Ospiti ovvero Stranieri» (Silm., 37). Abbandonano questo mondo, ma solo per continuare a vivere come e dove il Creatore ha pensato per loro. La pace degli Uomini di Tolkien non è nella Terra di Mezzo – e così è anche per noi: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (S. Agostino, Confessioni, I, 1). Per questo Arwen, cresciuta dagli Elfi e con gli Elfi, fatica a comprendere le implicazioni della sua scelta. Al capezzale del marito, confida ad Aragorn: «Sinora non avevo compreso la storia della tua gente. Li deridevo come se fossero stupidi e cattivi, ma ora finalmente li compiango. Perché se questo è, in verità, il dono dell’Uno agli Uomini, è assai amaro da ricevere» (SdA, 1268). Sì, è un dono amaro da ricevere, ma non privo di speranza. La morte non è la fine, ma una porta che si apre. E ogni cristiano, nell’ultima ora, può «pregare» con le parole di Aragorn: «Non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!» (SdA, 1268)

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